Non fate della Terra la vostra dimora

Non fate della Terra la vostra dimora

Meno male che ci sono i problemi.
Quelli piccoli, quasi più fastidi che problemi, come il figlio che si ammala proprio il giorno che avevi quella serata aspettata da tanto, o la multa che ti frega quei soldi che avevi messo via per la borsa nuova, o l’amico che ti volta le spalle nel momento del bisogno.

Ma anche quelli medi, quelli insomma non proprio da riderci sopra, come scoprire che non hai passato quel concorso per il quale ti sei preparato tre anni, oppure perdere quasi tutti i tuoi risparmi perché quell’investimento che ti avevano proposto era una truffa, o ricevere quella chiamata dalla Questura perché tuo figlio, il tuo Gigi tutto casa-e-scuola, in realtà spaccia cocaina e stavolta si è cacciato seriamente nei guai.

E poi sì, meno male che ci sono anche i problemi quelli devastanti.
Il terremoto che in 45 secondi cancella, senza preavviso, tutto quello che possiedi e quasi tutti quelli a cui vuoi bene, lasciandoti solo e senza nulla.
Le persone, magari anche fidate, che ti fanno talmente tanto male, magari per un proprio tornaconto, da lasciarti ferite che cambiano la tua vita per sempre, e senza che tu possa avere giustizia.
Oppure quella TAC fatta perché ti ronzavano le orecchie, che a ciel sereno ti dice che non farai in tempo a vedere i tuoi figli laurearsi, ma forse non li vedrai nemmeno fare la prima Comunione.

Ovviamente a nessuno piace soffrire, e chi va in giro a dire che è sbagliato cercare di star bene è generalmente un frustrato che cerca di legittimare il suo disimpegno con la vita.

Però.

Però ci sono due modi di guardare le cose brutte che inevitabilmente accadono.
Il primo modo è quello che ci viene immediatamente istintivo: dobbiamo fare di tutto perché la vita sia il più possibile “a posto”, minimizzando il rischio che accadano intoppi (massimizzando l’istruzione, le relazioni, la capacità economica, la cura del corpo – tutte cose giustissime). E se quando gli intoppi accadono scatta il piano di autoprotezione, tipo le piastrine quando ti fai un taglio, e nel minor tempo possibile cerchiamo di far rientrare la situazione eliminando l’anomalia e riportando tutto al suo stato normale, di fatto in attesa del prossimo intoppo. In questa visione i problemi sono da censurare, risolvendoli il prima possibile. Infatti non ne parliamo, li evitiamo con la vergogna che si riserva alle proprie debolezze.

Il secondo modo, che richiede allenamento e non è adatto ai fifoni, è invece quello di chi ha capito che cercare di tenere “a posto” la vita è una stolta illusione. E a poco a poco smette di tenere quest’unico irrealizzabile obiettivo come faro delle proprie scelte, e si rende conto che la personale realizzazione di ciascuno di noi non dipende dal fatto che le cose vadano bene.

Vivere con l’ansia di difendersi dalle avversità non solo è dispendioso, ma totalmente inutile: ricco o non ricco, il tumore al pancreas ti porta via, così come l’ictus ti metterà in sedia a rotelle. E anche il terremoto non ti chiede l’ISEE, come non te lo chiedono la morte delle persone care, la cattiveria degli uomini, la depressione, e migliaia di altre cose che facciamo finta non ci riguardino finché non capitano a noi.

La verità è che la Terra, la vita che stiamo vivendo, è buggata. Piena di difetti di fabbrica che rendono impossibile (ma impossibile davvero, per tutti, non solo per gli sfigati) vivere una vita “a posto”, protetta da mura difensive impermeabili ai problemi.

La vita a posto non esiste, è una truffa. Punto. Fine.
E sapete perché? Perché la vita non è lo scopo della vita. Non siamo qui per vivere nel modo più sereno e tranquillo possibile i nostri ridicoli 90 anni: siamo qui per realizzare pienamente noi stessi indipendentemente dalle condizioni al contorno.

Puntare sulla vita “a posto” è un po’ come prendere un treno e preoccuparsi degli allestimenti interni invece che della destinazione. E’ come salire su una cabinovia e non scendere per fare la sciata della vita, ma restare sempre su, avanti e indietro, abbellendo e addobbando la cabina. Pulisci il pavimento, lavi il vetro, metti pure le tendine, appendi l’arbre magique. Deridendo quelli che non sono bravi come te a mettersi a posto la loro cabina, e che anzi fanno finta di farsela andare anche se è mezza rotta, sporca e con gli spifferi. Tu sì che sai goderti la vita la cabina. Perché non c’è nessuna sciata dopo la cabina, e tanto vale rendere quel loculo il più confortevole possibile. Mentre quegli stolti che ti passano a fianco, invece che investire per comprare i led nuovi, le tendine e tutti i comfort, hanno speso i loro averi per comprare caschi e sci ultimo modello, e intanto si fanno il viaggio scomodi e al freddo.

I casi sono due.
O alla fine la cabina si stacca, precipiti, e tutto finisce, ma almeno ti sei goduto un po’ di comfort in quel viaggio senza senso (oh, sei pure diventato il presidente di Cabinolandia!).
Oppure si arriva davvero alla pista delle piste, alla sciata della vita, e tu non hai manco gli sci. La tua cabina era fighissima eh, però il viaggio è durato pochissimo e ora non sai più che fartene.

I problemi, dai piccoli fastidi alle tragedie belle grosse che nessuno vorrebbe nemmeno nominare, servono anche a questo. A ricordarci che non siamo fatti per addobbare la cabina, ma per arrivare alla sciata. Che gli sforzi devono servire a quello, e se a noi capita una cabina mezza rotta, oppure se a metà strada si stacca un vetro ed entra il vento gelido… pace, faremo il viaggio col vento gelido. Tanto, mica è quello il punto.

Il fatto che la vita continui a rompersi, nel piccolo e nel grande, serve (anche) a ricordarci che non è nel tenere tutto a posto che dobbiamo convogliare la nostra attenzione, serve a ricordarci che non siamo nella cabina per restarci.

Anzi, proprio i problemi della vita ci rivelano chi siamo, ci fanno scoprire cosa abbiamo di valore, e ci danno il metro di valutazione per tutto.

Capite allora l’assurdità di quelli che dicono “eh ma dov’è Dio? Come si permette di farmi succedere tutte queste cose orribili?”. Dio è lì, e ci sta dando quello che ci serve. Solo che quello che ci serve non è la vita a posto, è molto di più. E ci dobbiamo arrivare, con la vita a posto o meno (chissenefrega). Lamentarsi con Dio perché la vita non è a posto significa non aver capito che non è quello di cui abbiamo bisogno, e Dio non è qui per sistemare le nostre quattro baggianate (sì, compresa la nostra salute). E’ come avere Cracco che sta cucinando per noi, e lamentarsi perché non ci ha aggiustato la macchinetta delle merendine. Starai anche cucinando una cena fighissima per me, ma se non mi fai prendere il mio kit-kat adesso, non sei davvero Cracco. O se lo sei, non c’entri con la mia vita. E così ti ritrovi senza kit-kat e pure senza cena.
Che teste di cracco che siamo a fare così.

Non sprechiamo l’occasione di usare i problemi a nostro vantaggio.